22 aprile, il racconto della maratona di Londra

Chi corre la maratona non sa cosa sia una maratona se non corre prima quella di Londra. Avete tempo per un racconto?
Notte tranquilla, dormito proprio bene (d’altra parte siamo all’Hilton e non si può non dormire bene). Colazione buona e per noi fortunata. È bastato scendere qualche minuto prima dell’orario stabilito per riuscire a sedersi e fare tutto con comodo. Chi è arrivato dopo non ha trovato posto nella sala delle colazioni ed il personale dell’albergo non ha permesso loro di entrare fino a quando gli altri non liberavano il tavolo. Alle 7 c’era una fila di almeno 100 persone in attesa di entrare.
Poi il viaggio verso la partenza, con la metropolitana presa a Egware Road e poche persone. Abbiamo trovato comodi posti a sedere, ma dopo il vagone è diventato affollatissimo con un mare di gente con la sacca ufficiale della maratona che rimaneva sulla banchina impossibilitata ad entrare.
All’arrivo alla stazione si cominciano a vedere un po’ dei runners estrosi: un tizio vestito da renna, un altro da bottiglia di birra, c’è quello con indosso la carrozzeria di un’auto rifatta in gomma piuma, e quello vestito da fatina con le gambe più pelose di uno yeti.
Alle 8:20 si arriva su uno sterminato prato nel parco di Greenwich e lo sguardo va ai tre mega aerostati dei colori blu, rosso e verde, che sono poi i colori delle tre zone di partenza e che ti dicono da che parti dirigerti.

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Si entra nell’area di partenza. 20 file per andare ai bagni, ogni fila può usare 15 diversi gabinetti. Un’addetta fa avanti e indietro per vedere se sono puliti e se c’è carta. I podisti aspettano a 10 metri di distanza, così la privacy ed i rumori sono salvaguardati.
Alle 9:45 la partenza per la massa. Io sono nella gabbia 5. Davanti a me tanta gente, dietro tantissima.

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Dal primo metro della corsa ho capito che questa sarebbe stata una giornata speciale. Un muro di persona ai lati della strada dietro le transenne che urla a squarciagola, che batte le mani, che fischia, che attira l’attenzione gridando “forza Italia” vedendo la mia maglia. E centinaia di ragazzini che vogliono il 5 al tuo passaggio ed io che mi metto sul lato della strada per batterli tutti: le dita mi bruciano per quanti sono.
I ristori partono quasi subito. Acqua alle miglia pari ed integratore salino a quelle dispari, senza saltare mai un miglio. I tavoli sono lunghi almeno 100 metri ed almeno 60-70 persone ti passano la bottiglietta già aperta e pronta per essere bevuta. Nonostante la ressa, siamo partiti in 40mila, nessuno rimane senza. E ci sono gli addetti che raccolgono le bottiglie gettate a terra e le tolgono dal percorso, ed altri che spazzano la strada dall’acqua versata. Sono organizzati come una macchina da guerra.
Ma questa non è una guerra, è una festa alla quale tutta la città partecipa. Intere famiglie sono ai lati della strada e si divertono a guardare il passaggio degli atleti élite ma anche di noi tapascioni, e non smettono mai di farti sentire il loro supporto. Sulle strade ci sono venditori di hot dog e camioncini del gelato. Le band musicali ci sono ma potrebbero anche non essere lì, tanto il frastuono riesce a coprire la musica. La gente è venuta a vedere uno spettacolo ma non si rende conto che lo spettacolo sono loro.
All’uscita da un tunnel ho guardato in alto sopra di me. Una folla festante ti accoglie nella riemersione. Ho i brividi e non sono di freddo.
La giornata è semplicemente perfetta. Le previsioni del tempo avevano dato una probabilità di pioggia pari al 30-40%. Invece il cielo è terso, la temperatura intorno ai 10 gradi. In un paio di passaggi all’ombra si sente un vento gelido che spira in senso contrario ma sono momenti brevi riscaldati dal calore di chi urla “dai itaglia”.
Io ho un problema. Ai 22 mi devo fermare per un attacco di diarrea, ma la sosta è breve. Letteralmente tolgo uno spettatore da dentro un gabinetto (ce ne sono diversi ogni 5 miglia, mi pare), e questo mi chiede scusa per aver occupato una cosa che è riservata a noi corridori. Riparto bene, la strada è ondulata e non flat come ce l’avevano descritta. Certo affrontare il Tower bridge è un’emozione fantastica, e vedere la città scorrere davanti agli occhi non ha prezzo.
Il passo è ormai affaticato, non riuscirò a finire la corsa sotto il mio personal best. Mi viene anche l’idea di provare a camminare un po’ per tirare il fiato. La gente ai lati della strada sembra capirlo e dice a gran voce “keep going”, “don’t stop now” “go, go, go”. Non posso. Non posso proprio fermarmi. Me lo chiedono loro a gran voce. Forse non lo stanno dicendo proprio a me, perché intorno in tanti accusano la fatica, però per me è così. No ragazzi, non vi deluderò, continuerò a correre a condizione che voi continuiate così. Voglio essere spronato. Scusate se qualche chilometro fa nella mia mente vi ho chiesto di fare un po’ meno chiasso. No, no, continuate pure. Lo voglio. Voglio sentire le vostre voci e mi spiace non aver scritto sulla maglia il mio nome perché quando gridate “vai jonh” “forza matt” “bravo steve” quelle grida aiutano anche me che nella stanchezza trasformo tutti i nomi nel mio.
Adesso c’è Westminister eppoi la strada che porta a Buckin gam Palace. Si gira una curva e si entra sul Mall. C’è una tribuna su ogni lato gremita di gente. Alzo le braccia ed il boato si fa assordante. Sono gli ultimi 200 metri, vorrei durassero per sempre.
Il cronometro dica quello che vuole io oggi ho finito la maratona di Londra, la più bella corsa della mia vita.

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